La sentenza è caduta come una pietra nel pozzo della memoria collettiva, lasciando cerchi di sgomento che si allargano ben oltre le mura di una Rsa.
La Corte d’Assise d’Appello di Perugia ha condannato all’ergastolo Leopoldo Wick, 62 anni, ex infermiere nella casa di riposo di Offida, nell’Ascolano, ritenuto responsabile di otto omicidi volontari e quattro tentati omicidi a carico di pazienti anziani.
La Procura generale aveva chiesto il massimo, e il massimo è arrivato.
Ma per comprendere la portata di questa decisione, bisogna tornare indietro, attraversare la nebbia di due gradi di giudizio, un’assoluzione ribaltata e un annullamento che ha riaperto tutto.
È stata la Cassazione, nell’ottobre del 2024, a riaccendere le luci su un caso che pareva avviato verso l’oblio.
La Suprema Corte ha annullato la precedente assoluzione maturata davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Ancona, disponendo un nuovo processo a Perugia.
Prima ancora, in primo grado, la Corte d’Assise di Macerata aveva inflitto l’ergastolo a Wick, indicando in una sequenza di decessi anomali un filo conduttore unico, una mano nascosta dietro la routine di farmaci e cartelle.
Ora quel filo, per i giudici umbri, non è più solo un’ipotesi.

È una trama di responsabilità provata oltre il ragionevole dubbio.
La vicenda, sin dall’inizio, ha indossato l’abito scomodo dei casi-limite della sanità di lungo degenza.
Pazienti fragili, pluripatologie, terapie complesse, orari notturni, pochi testimoni.
Su quel terreno sfumato si sono mossi inquirenti e periti, alla ricerca di un pattern, di una ricorrenza tossica, di una firma clinica invisibile.
Tra il gennaio 2017 e il febbraio 2019, in un arco di appena due anni, troppi decessi con dinamiche simili, troppe somministrazioni “atipiche” di farmaci potenzialmente letali, troppe coincidenze che — come spesso accade nei processi — hanno smesso di sembrare tali.
La figura dell’infermiere, in Italia, è simbolo di prossimità, di cura, di affidamento domestico dentro l’istituzione.
Per questo il tradimento di quel patto ferisce come un’ustione.
Nelle motivazioni che verranno, la Corte di Perugia dovrà scolpire le ragioni del convincimento, ma già oggi il perimetro è chiaro: la somministrazione indebita di farmaci, in contesti in cui non ve n’era indicazione, ha determinato o concorso a determinare il decesso o il gravissimo peggioramento di pazienti anziani.
La parola “indebita” pesa come piombo, perché separa l’errore dalla volontà, la disattenzione dalla scelta, la sfortuna dal delitto.
Le Rsa sono luoghi in cui la notte scorre lenta e le macchine misurano la vitalità con una serie di numeri intermittenti.
È in quelle ore che, secondo l’accusa, si consumava la parte più buia della vicenda.
Non scenari da serie televisiva, non il gesto eclatante, ma una catena di gocce, iniezioni, bilanciamenti alterati, fino alla linea piatta.
L’inchiesta, a partire da segnalazioni interne e da una contabilità di eventi anomali, ha scavato nelle cartelle cliniche, nei registri di magazzino dei farmaci, nei turni, incrociando presenze e assenze, dosi e orari, fino a ricostruire un mosaico che in aula ha retto, si è incrinato in appello, ed è stato ricomposto dal nuovo giudizio.
Il nome di Wick è entrato così nell’immaginario di un’Italia già provata da stagioni in cui la sanità è stata messa sotto pressione.
Si è parlato di “angelo della morte”, di “serial killer delle corsie”, etichette che più che spiegare sviano.
Qui il cuore non è il sensazionalismo.
È il rapporto tra potere di cura e vulnerabilità, tra procedura e fiducia, tra controllo e solitudine.
Quando una struttura fallisce nel vedere, nel registrare, nel prevenire, non è solo l’azione del singolo a essere sotto processo: è l’intero perimetro di protezione che si rivela permeabile.
Le difese, nei passaggi processuali, hanno insistito sul contesto clinico dei pazienti, sulla plausibilità di decessi per cause naturali, sull’assenza di tracce inequivocabili in alcuni casi.
È il terreno classico dell’oscillazione probatoria: come si dimostra il veleno quando somiglia a una terapia?
Come si prova la volontà quand’è nascosta dietro un protocollo?
La risposta dei giudici perugini è passata dalla forza del disegno complessivo, dalla sequenza reiterata, dalla convergenza di indizi che, messi in fila, hanno la consistenza di una strada, non più di sassolini dispersi.
Otto omicidi, quattro tentati omicidi: numeri che obbligano il paese a interrogarsi.
Che cosa non ha funzionato nei dispositivi di vigilanza?
Dove si è interrotta la catena di accountability?
Quanto spazio c’è, nelle notti delle Rsa, per la discrezionalità non vista?
Non è un’accusa alle migliaia di operatori che tengono in piedi, con dedizione, la cura di lungo corso.
È una richiesta di realtà: servono procedure di doppia verifica sulle somministrazioni critiche, sistemi digitali di tracciamento, allarmi intelligenti che segnalino pattern anomali, audit clinici indipendenti.
La sicurezza non è burocrazia: è prevenzione.
Le famiglie delle vittime hanno attraversato questi anni come si attraversa un labirinto.
Prima il sospetto sordo, poi la denuncia, poi la speranza di giustizia, poi l’assoluzione, poi di nuovo la Cassazione, infine la condanna.

Ogni svolta riapre ferite.
Ogni rinvio le prolunga.
Oggi, per loro, l’ergastolo non risarcisce — nulla risarcisce — ma riconosce.
E il riconoscimento, in uno Stato di diritto, è il primo atto di riparazione.
In controluce, il caso di Offida ricorda altri processi europei in cui l’ordinario si è trasformato in letale per mano di chi doveva proteggere.
Ogni volta, i sistemi hanno reagito irrigidendo procedure, aumentando controlli, rivedendo la formazione.
È la strada anche qui.
Più tecnologia non significa meno umanità, se è tecnologia di responsabilità.
Un braccialetto che registra ogni somministrazione, un algoritmo che segnala frequenze sospette, una coppia di operatori per le terapie ad alto rischio sono scelte che raccontano la cura senza spettacolo.
C’è poi il nodo culturale.
Abbiamo un rapporto difficile con la vecchiaia e con la lunga degenza.
Li pensiamo come parcheggi, più che come luoghi di vita.
E in quella invisibilità prosperano le omissioni.
Una Rsa che apre le proprie pratiche al territorio, che rende trasparenti i suoi dati clinici aggregati, che accoglie volontari formati come “occhi esterni”, non è una Rsa sotto assedio: è una Rsa più forte.
La trasparenza non umilia: educa.
Nel dispositivo di condanna, la Corte perugina ha accolto la richiesta di massimo della pena.
È un segnale di fermezza e, insieme, un messaggio: la vulnerabilità estrema è materia sacra per l’ordinamento.
Tradire la fiducia di chi non può difendersi è un’aggravante morale oltre che giuridica.
Sarà interessante leggere le motivazioni, capire il peso attribuito ai singoli episodi, alla cronologia, alle perizie farmacologiche e tossicologiche.
In quella architettura si misurerà la solidità del verdetto in vista di eventuali ulteriori passi difensivi.
La casa di cura di Offida, intanto, è una comunità ferita che deve ricostruire.
Operatori che hanno lavorato a fianco dell’imputato si interrogano sul non aver visto, sul non aver collegato.
Ma la colpa non si distribuisce a pioggia.
Si trasforma in lezione, in formazione obbligatoria sull’etica clinica, in spazi di parola dove il dubbio professionale è incoraggiato, non punito.
Una cultura che premia chi segnala e protegge i whistleblower non è sospettosa: è matura.
Il processo ha riportato al centro, con brutalità, la questione delle dotazioni e del personale.
Turni massacranti, organici ridotti, affaticamento cronico sono terreno in cui l’errore prolifera e, nei casi peggiori, la malafede si traveste da routine.
Non basta un regolamento per cambiare il clima.
Servono investimenti, standard minimi inderogabili, verifiche periodiche reali, non rituali.
E serve — sempre — un direttore sanitario con poteri e doveri di controllo effettivi, capace di accendere luci dove l’abitudine spegne l’attenzione.
In aula, la parola “tentato omicidio” ha una violenza che non si lascia smussare.
Significa che qualcuno è passato vicino al confine, e ne è tornato non per grazia dell’imputato, ma per una contingenza clinica, per un soccorso tempestivo, per una resistenza dell’organismo.
Quei sopravvissuti, o le loro famiglie, sono memoria vivente di una linea che non doveva essere avvicinata mai.
La giustizia li abbraccia riconoscendo il pericolo corso, e chiede alla sanità di scolpire quella linea in ogni protocollo.
Il dibattito pubblico, come sempre, rischia di polarizzarsi.
Da una parte chi invoca la mano durissima, dall’altra chi teme la caccia alle streghe contro una categoria.
L’equilibrio, stavolta, è un dovere.
Proteggere l’onore di migliaia di infermieri e operatori non significa sminuire il peso della condanna.
Significa costruire strumenti perché un caso così non si ripeta.
La fiducia non è un sentimento generico: è un patto con regole chiare e tutele concrete.
Dentro il racconto giudiziario, resta il battito umano.
Nomi, fotografie incorniciate sui comodini, feste di compleanno in reparto con candeline di carta, telefonate dei nipoti.
Ogni vita interrotta ha una storia che non può essere compressa nella formula “paziente anziano”.
Le sentenze servono a dare risposte.
La memoria serve a non ridurre.
Quando parliamo di “otto omicidi” parliamo di otto mondi, di otto geografie affettive, di otto futuri che continuano in chi resta.
Il diritto penale ha fatto la sua parte, oggi.
Ora tocca al diritto amministrativo, al management sanitario, alla politica.
Una linea nazionale di sicurezza per le Rsa — tracciabilità integrale dei farmaci, doppie firme digitali, audit indipendenti annuali, pubblicazione dei dati sentinella — non è un sogno.
È una necessità.
E non è un costo sterile: è un investimento che salva vite, reputazioni, e quel bene raro che è la serenità dei familiari.
C’è un’immagine che resta, più di altre.
Un corridoio di notte, un carrello dei farmaci, una mano che si avvicina a una fiala.
In quell’istante si gioca tutto: il senso di un mestiere, il confine tra cura e violenza, la dignità di una struttura.
Lo Stato non può essere in quel corridoio ogni notte, ma può esserci con le regole giuste e con la capacità di verificare che siano rispettate.
È la forma moderna della presenza.
Quando, tra qualche settimana, usciranno le motivazioni, sapremo di più sul come e sul perché.
Intanto, l’ergastolo pronunciato a Perugia segna un punto fermo.
Dice che la giustizia sa tornare su se stessa, correggere, riaprire, e alla fine decidere.
Dice che la vita fragile ha un valore infinito anche quando il suo orizzonte è breve.
Dice che ogni camice, ogni carrello, ogni fiala sono segni di un patto che non si può violare senza rispondere.
Ai familiari, il Paese deve qualcosa che nessun tribunale può dare: vicinanza concreta.
Sportelli dedicati per l’accesso agli atti, percorsi di supporto psicologico, ristori rapidi e non punitivi, cerimonie civili di ricordo.
La memoria istituzionale è una forma di cura.
E cura è anche la parola giusta per descrivere la responsabilità collettiva che da domani ricade su Rsa, regioni, ministeri.
“Ventiquattro pazienti, una mano sola”, recita il titolo che abbiamo scelto.
È un’immagine forte, forse dura, ma necessaria per ricordare che dietro i numeri ci sono scelte.
Omissioni, azioni, controlli mancati, vigilanza assente: tutto concorre quando il male prende forma nel luogo in cui il bene dovrebbe essere di casa.
Riconoscerlo non è accanimento.
È il primo passo per cambiare.
La sera, nelle Rsa, resterà lunga come sempre.
Le ronde, i parametri, le medicine, i sospiri, le tv basse, i sogni interrotti.
Ma da stanotte dovrebbe restare anche una convinzione più netta: che la sicurezza dei fragili non si affida al caso.
Si costruisce.
Con tecnologia intelligente, procedure sensate, coraggio di vedere, volontà di modificare.
Con occhi che osservano e mani che non tradiscono.
La giustizia ha acceso un faro su Offida e su Perugia.
Sta a noi non spegnerlo.
Vuol dire non trasformare questo caso in un feticcio, ma in un manuale.
Vuol dire proteggere gli anziani non con slogan, ma con sistemi.
Vuol dire restituire all’infermiere la sua nobiltà, togliendogli il peso di una solitudine operativa che fa male a tutti.
Un processo finisce, ma la storia che racconta continua.
Nelle decisioni delle direzioni sanitarie, nei bilanci regionali, nei controlli dei Nas, nelle ispezioni a sorpresa, nelle famiglie che chiedono, con il diritto di chi ama: “Come state lavorando con chi amiamo?”.
Ogni risposta dovrà ricordare quello che oggi Perugia ha detto con una sentenza.
Che la cura è sacra.
E che nessuno, mai, deve poterla usare per spegnere una vita.