Un messaggio sul telefono. Un nome sullo schermo. Valerio Scanu crede di sapere cosa sta per accadere: “Pensavo fosse un invito… a fargli una sorpresa.” Ma pochi minuti dopo, tutto cambia. Le parole si spezzano, gli occhi si velano. In diretta, Scanu rivive quell’istante che ha trasformato la sorpresa in tragedia. Nessuno gli aveva detto nulla, nessuno poteva prepararlo. Solo il silenzio di una notizia impossibile da accettare. Nel gelo dello studio televisivo, un’intera nazione resta senza fiato: la storia dietro la morte di Peppe Vessicchio non è come sembra|KF

C’è una distanza minuscola, quasi impercettibile, tra l’attesa di un gesto affettuoso e lo schianto della realtà.

Quella distanza, per Valerio Scanu, ha la forma di una notifica sul display, una richiesta gentile, le parole di sempre: “Ti va di intervenire per un saluto al maestro?”

Un saluto che nella mente dell’artista aveva ancora il senso della festa, della celebrazione, del tributo all’uomo che gli aveva insegnato a trovare il respiro dentro la musica.

Poi la curva stretta, il varco improvviso, il cuore che si ferma.

Il nome di Peppe Vessicchio rimbalzava sui social, i post si moltiplicavano, la voce correva più veloce del fiato.

Il maestro non c’era più.

”Pensavo fosse un invito a fargli una sorpresa”: Valerio Scanu quasi in lacrime in tv svela come ha scoperto la morte di Beppe Vessicchio

Sessantanove anni, una polmonite interstiziale, quelle parole che dietro la loro precisione clinica nascondono il caos del dolore.

A La Volta Buona, tra le luci che addolciscono e i silenzi che graffiano, Scanu si siede e prova a parlare.

La voce non è la stessa che conosciamo dai palchi, non è la voce del canto, educata e salda.

È un filo incrinato, una corda che trema a ogni tocco del ricordo.

Racconta di un messaggio, di un equivoco che non era equivoco ma speranza.

Racconta dello scrolling compulsivo, della frase cercata come una smentita: “Ditemi che non è vero.”

Racconta dell’istinto di scrivere alla figlia, come se fosse possibile, ancora per un istante, fermare l’onda, invertire la corrente.

Ma la corrente non si ferma, e nemmeno il tempo che separa un prima vivido da un dopo senza contorni.

Il rapporto tra il cantante trentacinquenne e il direttore d’orchestra era un filo lungo vent’anni, teso con discrezione e affetto.

Si erano incontrati quando Valerio aveva dodici anni, in quella palestra di talenti acerbi che era Bravo, Bravissimo.

C’è una fotografia, mostrata in studio, in cui i due stanno uno accanto all’altro.

Non è la solita istantanea d’archivio: è un fermo immagine che contiene due epoche, due stati dell’animo, due promesse.

Scanu confessa che quell’immagine era stata l’ultima conversazione tra loro, uno scambio di silenzi e riconoscimenti.

A luglio gli aveva inviato la foto senza testo, come si fa quando le parole potrebbero rovinare una memoria preziosa.

E lui aveva risposto con la sobrietà di chi conosce il peso delle immagini: “Grazie Valerio, questa foto è importante soprattutto per ciò che rappresenta.”

Il cantante 35enne era molto legato al direttore d’orchestra: è devastato dalla sua scomparsa. A La Volta Buona parla del rapporto col 69enne, deceduto l’8 novembre a causa di una polmonite interstiziale

Cosa rappresentava, davvero?

Forse l’innocenza dell’inizio, quando la musica è una scala da salire insieme, gradino dopo gradino.

Forse la paternità artistica, quel gesto raro di posare una mano invisibile sulla spalla del più giovane e dirgli senza dirlo: “Vai, io sono qui.”

Forse il mistero del tempo che passa e trasforma gli allievi in colleghi, i maestri in orizzonti.

Sanremo, nelle parole di Scanu, torna come una casa in cui Beppe Vessicchio era il corrimano: paterno, fermo, una presenza che non chiede attenzione ma la assicura.

Essere direttore, in fondo, è orchestrare voci senza soffocarle, tenere insieme battiti diversi, dare respiro.

E Vessicchio aveva questo talento umano prima che musicale: saper ascoltare la persona oltre la nota, l’ansia dietro l’intonazione, la storia dentro il timbro.

L’8 novembre, la notizia cade come una lastra di ghiaccio.

Una polmonite interstiziale: diagnosi che per chi vive di aria e fiato suona come una beffa, un paradosso crudele.

Il respiro si fa metafora e destino, si fa barriera.

In tv, quel giorno, la figura di Scanu si allunga sui divani come un’ombra più lunga del corpo.

È composto, ma non rigido.

È dolente, ma non teatrale.

Ogni frase è una carezza che finisce in un graffio.

“Pensavo fosse un invito a fargli una sorpresa,” ripete, e in quel verbo al condizionale si sente tutto l’impossibile che resterà tale.

Le sorprese, a volte, arrivano al contrario.

E insegnano a tutti quanto sia fragile la distanza tra un “ci vediamo” e un addio.

In queste ore, suona quasi blasfemo parlare di social.

Eppure è attraverso lo schermo che molti hanno vissuto l’ultimo tratto del tragitto del maestro.

La rete è un luogo spietato e consolante: diffonde, amplifica, mescola vero e falso, e poi, talvolta, restituisce un coro di memorie che scaldano.

Ex allievi, colleghi, musicisti d’orchestra, giovani cantanti: ognuno ha un ricordo in tasca.

Una prova finita tardi e una battuta che scioglieva la stanchezza.

Un cambio dell’ultimo minuto e la sua calma che mette in ordine il caos.

Un consiglio sussurrato tra il rigo e il ritornello.

Sono frammenti che non fanno biografia ma raccontano una maniera, un modo di stare al mondo.

La musica, diceva spesso, è disciplina che diventa libertà.

E lui, per molti, è stato proprio questo: disciplina paterna, libertà affidata.

Il dolore di Scanu ha un’accoglienza particolare perché il pubblico lo ha visto crescere.

Non è solo un artista che piange un maestro.

È un figlio musicale che saluta un padre d’arte.

C’è un senso di continuità spezzata, come se una linea melodica si fosse interrotta a metà battuta.

Ma c’è anche, dentro quel dolore, una forma di gratitudine che non fa rumore.

Quando dice “a Sanremo era il mio punto di riferimento,” Valerio non sta parlando solo di intonazioni e tempi.

Parla di un porto sicuro.

Parla della mano che non si vede ma ti impedisce di inciampare.

Parla del coraggio che trovi quando qualcuno ti guarda e, senza alzare la voce, ti fa capire che puoi farcela.

La tv, nei lutti, è spesso accusata di spettacolarizzare.

Qui succede il contrario.

La Volta Buona diventa per una volta un luogo di buona educazione emotiva.

Caterina Balivo non preme, accompagna.

La foto non è un trofeo, è un fazzoletto.

Il racconto non scava per curiosità, ma stende un ponte per chi, a casa, ha conosciuto il maestro solo attraverso un motivo fischiettato, una apparizione a Sanremo, un meme affettuoso, un arrangiamento che ha trasformato una canzone in un evento.

Nel gelo dello studio, paradossalmente, si sente calore.

È quello delle storie che si chiudono bene pur finendo male.

Perché chiudersi bene, in questi casi, significa essere restituiti al vero: l’arte come relazione, la musica come comunità.

Peppe Vessicchio è stato, per generazioni diverse, il volto umano della musica “seria” in tv.

Una figura capace di tenere insieme il lessico colto dell’orchestrazione e la lingua popolare del prime time.

Sapeva stare nel mezzo senza annacquare, parla la partitura e tradurla in emozione condivisa.

In un’epoca in cui tutto sembra correre verso il rumore, lui costruiva silenzi che preparavano gli applausi, attese che facevano brillare l’ingresso di una voce, equilibri che valorizzavano senza soffocare.

Questo è il lascito invisibile che oggi tanti citano senza saperlo: una grammatica del rispetto.

Rispetto per la musica, per i musicisti, per il pubblico.

Rispetto per chi canta, soprattutto quando è giovane e trema.

E Scanu, nel suo tremore di oggi, restituisce in pieno quello di allora.

La malattia che lo ha portato via è una di quelle parole che i notiziari pronunciano con la neutralità dell’informazione.

Eppure, tra chi musica la vive come mestiere e respiro, il solo nominarla accende una serie di risonanze dolorose.

In quelle tre parole — polmonite interstiziale — c’è l’idea dell’aria che si fa nemica, del fiato che manca proprio a chi lo ha dato agli altri, a chi ha insegnato a molti a prendere il tempo, a non bruciare le pause, a trovare il punto in cui la voce si appoggia.

Non c’è retorica che regga, qui.

C’è solo la constatazione di una sproporzione che la vita concede di rado: la grandezza gentile di un uomo contro la brutalità di un evento.

E la musica, per un attimo, tace.

Tace non per impotenza, ma per rispetto.

Per Valerio, come per tanti, l’elaborazione passerà anche attraverso il fare.

C’è chi scriverà un brano, chi riascolterà in cuffia un vecchio provino, chi andrà a cercare una partitura con annotazioni a matita, chi guarderà e riguarderà un video di prove in cui una smorfia del maestro dice più di mille parole.

Il lutto degli artisti ha colori diversi ma ha una costante: torna sempre al lavoro.

Perché il lavoro, in questo mestiere, non è routine, è linguaggio.

E dentro quel linguaggio si nasconde, spesso, la possibilità di salutare senza perdere.

È possibile che un giorno, su un palco, Scanu canti una nota e qualcuno, tra il pubblico, pensi: questa, oggi, ha un accento diverso.

Conosceva Vessicchio da quando aveva 12 anni

Non saprà dire perché.

Ma in quel perché, silenzioso, ci sarà un pezzo di Peppe.

Nel racconto della puntata, un dettaglio resta inciso come un sottotitolo invisibile.

Valerio dice di aver scritto alla figlia del maestro, sperando in una smentita.

È un gesto istintivo, ma ha una profondità semplice e profonda: cercare i familiari significa riconoscere la persona prima del personaggio.

La tv e i social avrebbero potuto bastare, la conferma era ovunque, eppure l’impulso è stato umano, non mediatico.

Come chiedere il permesso di pronunciare una notizia che taglia.

Come cercare un contatto per proteggere, almeno per un istante, la verità dal chiasso.

Sono gesti che non si vedono, ma che raccontano un’etica.

Quella stessa etica che Vessicchio ha praticato più di quanto abbia predicato.

In controluce, in questa storia, c’è anche l’Italia.

Un paese che con la musica ha un rapporto antico e contraddittorio, popolare e sofisticato, istintivo e studiato.

Vessicchio è stato un ponte naturale in questa complessità, un traduttore simultaneo tra palco e platea.

Per questo la sua scomparsa risuona oltre la cerchia degli addetti ai lavori.

È la perdita di una postura collettiva, di un modo di presentarsi al mondo: competenti senza spocchia, appassionati senza eccesso, seri senza severità.

Quando una figura così si spegne, resta una domanda che non riguarda solo chi suona o chi canta.

Riguarda tutti: come si coltiva la qualità in un tempo che vuole solo quantità?

La risposta non è un manifesto.

È la somma di scelte minime, ripetute.

Il tipo di scelte che, in tv, abbiamo visto incarnate per anni da quel gesto leggero della mano che invita l’orchestra a dare voce a una canzone.

A fine puntata, non c’è catarsi.

Non c’è neppure l’illusione che il dolore si sia fatto più lieve.

C’è, però, un senso di giustizia gentile: al maestro è stato concesso un saluto che assomiglia a lui.

Senza clangori, senza retorica.

Con l’onestà difficilissima del mostrarsi fragili davanti a milioni di occhi.

Valerio Scanu, quasi in lacrime, non recita una parte: abita un ricordo.

E il pubblico, che spesso chiede spettacolo, in questa occasione chiede silenzio insieme a lui.

È un bel modo di dire addio.

Forse il migliore che abbiamo, quando la musica non può ancora ripartire.

C’è un momento, nella stanza, in cui l’aria cambia.

Gli sguardi del pubblico, le inquadrature, le luci: tutto sembra fare un passo indietro.

Resta una sensazione che molti hanno annotato in maniera diversa ma che ha un nucleo comune: gratitudine.

Gratitudine per la bellezza data senza fare rumore.

Per le canzoni che abbiamo ascoltato e che ora portano un’ombra in più, non pesante ma più vera.

Per le serate d’inverno in cui una diretta si è trasformata, grazie a una bacchetta discreta, in una memoria condivisa.

E per la consapevolezza che certi maestri non finiscono nei necrologi: continuano come linea melodica che altri, un giorno, sapranno riprendere.

La cronaca, alla fine, consegna date, età, diagnosi.

La vita affida volti, frasi, gesti.

Qui restano entrambi.

Resta l’8 novembre con la sua durezza.

Resta il 69 scritto accanto a un nome che avremmo voluto leggere per molto più tempo.

Resta la polmonite interstiziale come monito che il respiro è dono e non abitudine.

E restano una foto, un messaggio, una risposta elegante e piena: “Grazie Valerio, questa foto è importante soprattutto per ciò che rappresenta.”

È tutto lì, in quell’avverbio: soprattutto.

Soprattutto ciò che non si vede, ciò che sta dietro, ciò che un’immagine contiene quando smette di essere un ricordo e diventa una promessa.

Promessa di custodire.

Promessa di continuare.

Promessa di dare alla musica il tempo che chiede, e alle persone lo spazio che meritano.

Nel gelo dello studio, qualcuno potrebbe aver temuto che la televisione tradisse il dolore con la consueta fretta.

È successo il contrario.

La lentezza ha avuto la meglio.

Il racconto ha trovato il suo respiro.

E nel respiro di chi ascoltava, anche solo da casa, un pensiero semplice si è fatto strada: grazie, maestro.

Per tutto quello che abbiamo sentito, e per tutto quello che — d’ora in poi — ascolteremo con un’attenzione nuova.

Così finisce una pagina che non avremmo voluto leggere, e tuttavia ci riguarda.

Perché in quel messaggio sul telefono, in quel nome sullo schermo, c’è la nostra vulnerabilità digitale e umana.

Crediamo di sapere cosa sta per accadere.

A volte è vero.

Altre volte la vita scompagina il copione.

In quei momenti, non resta che la qualità dei legami.

Valerio Scanu, con il suo pudore e la sua commozione, ce lo ha ricordato.

E Peppe Vessicchio, con la sua eleganza sobria, sembra dirci ancora una volta, da qualche parte al di là del sipario: prendete il tempo, rispettate la pausa, la musica arriverà.

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