
C’è un punto, nella traiettoria di ogni giornalista, in cui la prudenza smette di essere una virtù e diventa un freno, e il dovere di raccontare supera la tentazione del silenzio.
Per Sigfrido Ranucci quel punto sembra essere arrivato adesso, a valle di una puntata di Report che ha scoperchiato interrogativi scomodi sull’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e di un dibattito pubblico diventato incandescente in poche ore.
A Firenze, tra il palco del Giunti Odeon, lo spettacolo “Diario di un trapezista” e la presentazione del libro “La scelta”, il conduttore di Report ha tenuto alto il volume della sua denuncia, alzando il velo su pressioni, retroscena e responsabilità politiche.
E, soprattutto, ha pronunciato una frase destinata a rimbombare a lungo: “Le scelte che ho fatto le rifarei tutte”.
Il contesto è noto a chi segue l’inchiesta: intorno al Garante privacy, l’Autorità chiamata a vigilare sui dati personali dei cittadini, si è addensata una nube di contestazioni e sospetti dopo le rivelazioni del programma di inchiesta della Rai.
Ranucci ha parlato non di documenti carpiti con astuzia o sottratti in modo illecito, ma di informazioni arrivate “da dentro”, da dipendenti che non avrebbero più tollerato un “andazzo vergognoso”.
Parole che pesano, perché trasformano il racconto da pista giornalistica in allarme istituzionale.
Se è vero che dalle stanze di un’Autorità di garanzia escono materiali e segnalazioni su presunte irregolarità, la questione non riguarda solo l’etica interna, ma la tenuta stessa della fiducia pubblica nelle regole del gioco.
A fare da detonatore è stata anche la scelta di Ranucci di chiamare in causa direttamente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
“La premier non può dire che non è cosa sua” ha affermato, ricordando che nel collegio dell’Autorità siedono anche membri espressi dai partiti di governo, compresa la Lega.
Non un attacco generico, dunque, ma un invito preciso ad assumere responsabilità.
Nella sua ricostruzione, la politica avrebbe “creato un mostro”, un assetto che rende complesso intervenire, controllare, persino allontanare chi sbaglia, a fronte di meccanismi di garanzia pensati per proteggerne l’indipendenza ma che, nel tempo, si sarebbero irrigiditi in un’immunità di fatto.
È in questo intreccio che Ranucci individua quella che definisce “una delle pagine più brutte della democrazia degli ultimi anni”.
Il paradosso, dice, è tutto qui: si può perfino immaginare, in astratto, un procedimento di impeachment per il Presidente della Repubblica, ma per i membri di un’Autorità indipendente colti in fallo non esisterebbe un percorso chiaro e rapido di rimozione.
Il risultato sarebbe una zona grigia in cui la responsabilità evapora e la percezione pubblica si incrina.
Per un giornalista d’inchiesta, è terreno accidentato ma inevitabile.
Per le istituzioni, è una chiamata a riordinare regole e poteri prima che la sfiducia diventi sistema.
Il lessico scelto da Ranucci, in questa fase, non indulge ai giri di parole.
Parla di pressioni, di telefonate opache, di “attacchi nascosti” che si materializzano sotto forma di esposti, controlli fiscali, voci fatte filtrare ad arte per screditare la fonte o il mezzo.
Non è un vittimismo di maniera.
La storia personale del conduttore, “sotto tutela dal 2009 e sotto scorta dal 2021”, è materiale pubblico e dice che certe inchieste hanno un costo che si paga nel tempo, con moneta di solitudine, rigidità quotidiana, rinunce.
“Diciamo che non è che mi ha cambiato tanto” aggiunge, in una frase che suona come una mezza difesa e una mezza rivendicazione.
L’idea è che il mestiere, quando è scelto, non ammette retromarce.
L’onda lunga della puntata si è spinta fino a Palazzo Chigi e al Parlamento.
Fratelli d’Italia ha depositato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per sapere a che punto siano le indagini sull’attentato all’abitazione del giornalista e se “sia stato fatto tutto il possibile” per individuare autori e mandanti.
È un gesto politico che muove lungo due linee.
Da un lato, mostra attenzione e preoccupazione per la libertà di stampa e per la sicurezza personale di chi la esercita, richiamando nel testo i “valori fondanti della Repubblica”.
Dall’altro, pone implicitamente la domanda mai comoda: chi tocca fili ad alta tensione lo fa sapendo che qualcuno, nel buio, potrebbe reagire.
E se le indagini non avanzano, la paura prende forma di sospetto.
Sullo sfondo, resta il nodo più delicato: che cosa accade davvero dietro Report, nella macchina che produce e verifica le notizie.
Ranucci ha scandito un punto: le rivelazioni sull’Autorità non sarebbero frutto di furto o appropriazione indebita, ma di una catena di fiducia costruita con chi lavora o ha lavorato in quelle stanze.
In un’Italia allergica alle whistleblowing policies, la figura del dipendente che segnala abusi o irregolarità è spesso l’eroe buono dei manuali e il bersaglio mobile della realtà.
Se un’Autorità che protegge i dati fallisce in trasparenza, l’intero patto civico scricchiola.
Se a ricordarlo è un programma del servizio pubblico, la politica non può cavarsela con una smorfia di fastidio.
La serata fiorentina ha dato a Ranucci anche il registro narrativo per riavvolgere il filo tra scena e cronaca.
“Diario di un trapezista” è metafora limpida: stare sospesi, cercare equilibrio tra il dovere di informare e la legge, tra il diritto dei cittadini a sapere e il perimetro delle garanzie.
Nel linguaggio del funambolo ci sono cadute e recuperi, reti sotto il filo e vento che cambia.
Report, da anni, tende il suo filo su materie dove l’equilibrio è precario per definizione: sanità e affari, appalti e politica, lobby e istituzioni.
Quando un’inchiesta entra in collisione con un’autorità di garanzia, la caduta non è prevista, ma la vertigine sì.
È allora che il trapezista deve decidere se lanciare il salto o restare inchiodato al palo.
“Rifarei tutto” è la formula semplice con cui Ranucci incornicia quella scelta.
Sotto, però, c’è un’architettura di metodo che il pubblico vede solo in parte: incrocio delle fonti, verifiche a catena, carte, controdeduzioni chieste e, quando arrivano, pubblicate.
In questo gioco di specchi, la politica tende a vedere il mostro del pregiudizio mediatico, i giornalisti vedono il fantasma dell’interferenza.
La verità è che le regole servono proprio a fare pace tra quei fantasmi.
Se le Autorità indipendenti sono davvero tali, devono accettare il cono di luce dell’informazione come prova di forza, non come minaccia.
Se il giornalismo è davvero di servizio, deve reggere il contraddittorio fino in fondo.
È una danza ruvida, ma è la democrazia.
Alla premier, tirata in causa senza giri di parole, Ranucci chiede una postura netta.
Non bastano formule rituali sulla distanza tra governo e Autorità.
C’è una responsabilità politica nella selezione, nella vigilanza, nella reazione quando qualcosa si incrina.
E c’è, soprattutto, un dovere di non banalizzare: “non è cosa mia” diventa un archibugio retorico buono per ogni stagione, ma proprio per questo inutile.
La filiera della fiducia pubblica non si spezza con uno scandalo.
Si spezza quando, di fronte allo scandalo, chi può intervenire preferisce guardare altrove.
Se a dirlo è il volto di una trasmissione che ha fatto della verifica un mestiere, il messaggio arriva forte.
Non è un caso che, a margine, torni con forza il tema della protezione delle fonti.
In Italia, dove la legislazione ha fatto passi avanti ma non ha ancora blindato fino in fondo il segreto professionale, la vulnerabilità del giornalismo d’inchiesta è un rischio strutturale.
Spesso gli attacchi “nascosti” non sono minacce esplicite, ma forzature legali, richieste di risarcimento temerarie, indagini lampo sulle carte dei cronisti o sulle e-mail degli informatori.
In questo terreno limoso si gioca una partita più grande di un singolo caso: o si consolida l’idea che chi porta all’esterno un malfunzionamento istituzionale è un pezzo di igiene democratica, o si accetta che l’aria si faccia via via più rarefatta, fino a togliere ossigeno alla curiosità civile.
Ranucci non risparmia un’ultima stoccata, quando ricorda la sua condizione di sorvegliato speciale dal 2009 e scortato dal 2021.
Non è un distintivo da esibire, è un promemoria della sproporzione tra lavoro e rischio in certi campi.
Mettere in fila poteri, denaro, mala gestione e opacità produce quasi sempre un contraccolpo.
La domanda, per chi guarda la tv e per chi la fa, non è se valga la pena.
La domanda è come rendere sostenibile quel costo: con leggi più chiare, con solidarietà professionale, con una cultura politica che smetta di salutare ogni critica come un atto ostile.
L’alternativa è una democrazia più silenziosa, e una democrazia silenziosa è una democrazia più fragile.
Nel frattempo, il Paese aspetta risposte.
L’interrogazione di FdI al ministro Nordio sull’attentato all’abitazione del giornalista ha spostato il discorso dal piano del merito dell’inchiesta a quello, imprescindibile, della sicurezza.
A quattro settimane dal fatto, nessuna novità significativa filtra sulle indagini.
È questo il momento in cui la trasparenza istituzionale fa la differenza: dire cosa si sta facendo, quali piste si stanno battendo, quali strumenti si stanno usando.
La giustizia non può correre al ritmo dei social, ma il silenzio prolungato consuma fiducia.
E la fiducia è il primo capitale delle democrazie.
Che cosa resta, allora, dopo la “deflagrazione” verbale di Ranucci.
Resta un perimetro di responsabilità ridisegnato a voce alta: il governo chiamato a non girarsi dall’altra parte, l’Autorità invitata a chiarire e, se serve, a riformare al proprio interno procedure e governance, il giornalismo tenuto a mostrare fino in fondo il metodo che usa.
Resta un pubblico che chiede meno spettacolo e più sostanza, meno rissa e più fatti.
Resta, soprattutto, l’idea che la tv di servizio esiste se riesce a fare da interfaccia tra il cittadino e le stanze dove si decide, senza diventare cinghia di trasmissione di chi decide.
È un equilibrio sottile, un trapezio sospeso.
Ma non c’è alternativa: o si cammina su quel filo, o si rinuncia alla traversata.
C’è anche un risvolto culturale da non sottovalutare.
Quando un conduttore di prima serata afferma che “rifarebbe tutto”, non lancia solo una sfida al potere.
Manda un messaggio alle redazioni, alle scuole di giornalismo, ai giovani cronisti che stanno imparando a tenere in mano una telecamera o un taccuino.
Dice che il coraggio non è optional, ma non è neppure incoscienza.
È metodo, scudo, disciplina.
Vuol dire prendersi la responsabilità delle proprie scelte e accettare il contraddittorio senza trasformarlo in un tribunale dei social.
Insegna a separare il clamore dall’interesse pubblico, la curiosità dal voyeurismo, il dato dal pregiudizio.
A Firenze, tra un applauso e l’altro, Ranucci ha mostrato proprio questo impasto di fermezza e fragilità.
Non un eroe impassibile, ma un professionista che mette a verbale la fatica di certe scelte e la serenità di chi le considera, oggi come ieri, necessarie.
Il titolo di quella serata, “Diario di un trapezista”, ha trovato conferma nella cronaca dei giorni seguenti.
La politica risponde, le Autorità tacciono o preparano memorie, i giornali fanno da cassa di risonanza.
La rete sotto il filo è fatta di norme e di opinione pubblica.

Se la rete tiene, si può osare.
Se la rete cede, si cade.
Il futuro prossimo si gioca su tre domande semplici e spigolose.
La prima: quali correttivi normativi sono possibili per rendere più trasparente e responsabile il funzionamento delle Autorità indipendenti senza comprometterne l’autonomia.
La seconda: quali tutele effettive si vogliono garantire a chi, dall’interno, segnala abusi o irregolarità, mettendo in conto che il costo personale può essere elevato e prolungato.
La terza: quale cultura politica si intende coltivare nei confronti dell’inchiesta giornalistica, smettendo di piegare ogni rivelazione alla guerra di trincea tra schieramenti.
Sono domande che non hanno risposte in un tweet.
Ma da come verranno affrontate dipende il clima dei prossimi anni.
Nel frattempo Report continuerà a fare ciò che fa da oltre un quarto di secolo: accendere luci dove l’ombra conviene, raccontare il dettaglio che svela il quadro, provocare un salutare disordine nel flusso ordinato della narrazione ufficiale.
Non sempre piacerà.
Non sempre avrà ragione.
Ma il suo mestiere non è piacere, è porre domande e documentare.
Se poi la politica deciderà di affrontare davvero il nodo del Garante, dei poteri e dei contrappesi, lo si capirà dai fatti, non dai comunicati.
“Rifarei tutto” non è la bandiera di un’avventura personale.
È la sintesi di una scelta professionale che chiede di essere misurata sui risultati e sulla lealtà alle regole.
È anche un invito a non scambiare la durezza del tono per aggressività gratuita.
Ci sono momenti in cui la fermezza è l’unico modo per impedire al polverone di ricadere sui documenti.
E ci sono passaggi in cui la politica deve decidere se proteggere la forma o la sostanza.
Proteggere la sostanza significa dare risposte, aprire finestre, assumere responsabilità.
Così si chiude il quadro, per ora.
Un giornalista che non arretra.
Un’Autorità chiamata a spiegare.
Un governo interpellato a voce alta.
Un’opinione pubblica che, tra indignazione e attesa, chiede che la questione non scivoli via come un’altra polemica di stagione.
Il trapezista è già tornato sul filo.
La rete, stavolta, siamo noi: leggi, tribunali, stampa, cittadini.
Se reggiamo lo sguardo, la traversata si può fare.
E, forse, alla fine, ad aver tremato non saranno le istituzioni, ma solo le cattive abitudini che le indeboliscono.