La conduttrice racconta la sua battaglia a “Verissimo”: “Pensavo di morire subito, per quattro mesi sono stata assente a me stessa”
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C’è un momento in cui le luci dello studio televisivo sembrano meno feroci, in cui il riflesso dei faretti non abbaglia ma scalda, ed è spesso il momento in cui una persona decide di posare a terra il personaggio e di parlare come si parla in cucina, con parole che non chiedono sceneggiatura.
Enrica Bonaccorti, per decenni volto amato del piccolo schermo e voce capace di alleggerire pomeriggi e domeniche italiane, ha scelto proprio quel tipo di luce per raccontare l’ombra più lunga della sua vita.
Ha detto, con una sobrietà che faceva male e bene insieme, che aveva pensato al testamento, aveva immaginato il suo funerale, aveva perfino scelto le musiche, come se fare ordine intorno al dopo fosse l’unico modo per reggere il peso dell’adesso.
Non era una trovata televisiva, non era il colpo di scena di un talk, era la frase di chi ha guardato da vicino la linea sottile tra la paura e la lucidità, tra l’istinto di ritirarsi dal mondo e il bisogno, misteriosamente ostinato, di continuare a parlarci.
La diagnosi era arrivata in un giorno qualsiasi di settembre, uno di quei giorni che non promettono nulla e per questo possono cambiare tutto, e l’ha colta alle spalle, togliendo il fiato con la secchezza di una porta che sbatte.
Tumore al pancreas, quattro parole brevi che però allungano la stanza e riducono l’ossigeno, quattro parole che fanno cambiare posto alle fotografie, perché da quel momento ogni immagine diventa un prima o un dopo.
Enrica ha confessato di aver attraversato da sola l’impatto iniziale, chiudendo il perimetro alle visite, ai messaggi, ai sorrisi di circostanza, e in quel ritiro c’era la strategia antica di chi si fascia il torace per sentire meno le fessure.
“Non volevo vedere nessuno, volevo annullarmi”, ha detto, e in quel verbo, annullarmi, non c’era un desiderio di sparizione teatrale, ma il tentativo di ridurre il rumore, di abbassare la frequenza di tutto ciò che non fosse essenziale a stare in piedi.
Quattro mesi vissuti come in apnea, presente a sé solo a tratti, con il corpo che diventava diario e calendario, e il tempo misurato non più in stagioni televisive ma in esami, prelievi, appuntamenti con parole che fino a ieri appartenevano ad altri.
Eppure, mentre raccontava, la sua voce trovava un equilibrio sorprendente, non la calma finta dei copioni, ma la calma che arriva quando capisci che nominare la paura la ridimensiona, come se darle un contorno le togliesse la capacità di traboccare.
Ha spiegato che ha fatto tutto quello che c’era da fare, chemioterapia e radioterapia, l’alfabeto duro che migliaia di pazienti pronunciano ogni giorno, e che adesso c’è una pausa vigile, due mesi e mezzo di attesa prima della TAC, un’intercapedine tra la battaglia e il bollettino.
Ha aggiunto di sentirsi meglio di quanto temesse, una frase che non promette miracoli ma restituisce respiro, e l’ha detta con un sorriso non da copertina, un sorriso obliquo, di quelli che nascono dallo sforzo e non dalla posa.
Il tumore, ha ammesso, per ora non è operabile, sta in un punto scomodo, uno di quei crocevia che la chirurgia guarda con rispetto e cautela, ma non si è mosso, non ha mandato avamposti nel resto del corpo, e anche questo, in certe partite, è già un pareggio che vale come una vittoria ai supplementari.
In quella parola, sperare, Enrica ha messo la precisione di chi non confonde il desiderio con l’illusione, la pazienza di chi sa che i tempi della medicina non sono quelli dell’ansia, e la fiducia di chi ha imparato a misurare i giorni non solo in esiti ma in qualità.
Lo studio di “Verissimo” si è fatto allora una sala d’ascolto, e il pubblico a casa, sorpreso dalla nudità di quel racconto, ha sentito forse un brivido familiare, perché il cancro non è mai solo una notizia altrui, è una parabola che tocca, di persona o per persona amata, quasi ogni piazza.
La frase sulle musiche del funerale ha attraversato i social con la velocità delle cose vere, e ha lasciato dietro di sé scie di commozione e di discussioni, come tutte le verità che non cercano consenso ma testimonianza.
Molti hanno scritto che la sua confessione ha spaccato il vetro tra celebrità e fragilità, ricordando che l’aria respirata da chi sta sotto i riflettori e da chi sta in fila al supermercato è, alla fine, la stessa aria, capace di farsi tagliente o dolce senza guardare in faccia i curricula.
Qualcun altro ha ringraziato per la parola “pausa”, perché nelle storie di malattia non si parla abbastanza delle pause, di quei tempi sospesi in cui si aspetta un esito e intanto si impara il mestiere di vivere con un futuro a cerniera.
Intorno alla sua testimonianza si è addensata una domanda collettiva che non fa rumore ma fa compagnia: come si sta, davvero, dentro una diagnosi che arriva come un temporale e poi decide di restare come un clima.
La risposta, a ben vedere, Enrica l’ha disseminata senza proclamarla, scegliendo verbi lenti e immagini concrete, tenendo insieme la necessaria disciplina dei protocolli e la libertà sottile dell’ironia che ogni tanto è passata a salutare, sdrammatizzando senza negare.
Ha raccontato di un corpo che sorprende e di una mente che, a volte, si sorprende di sorprendersi, perché sentirsi meglio del previsto non è un tradimento del realismo, è un modo di rinegoziare il patto con se stessi, decentrando la sofferenza dal centro del colonnato.
In molte case, ascoltandola, qualcuno ha fatto un gesto automatico verso i propri esami accatastati in un cassetto, o verso la foto di un parente che ha affrontato un percorso simile, e questa comunanza silenziosa è forse la parte più politica e più civile di certe confessioni pubbliche.
Lo shock che il titolo ha suscitato, il brivido di paura che ha attraversato i feed e le chiacchiere, sono stati subito accompagnati da una verità meno spettacolare ma più feconda: la malattia non annulla la persona, e il modo in cui la persona la narra può educare un Paese a stare vicino senza invadere.
Si è parlato, nei commenti più consapevoli, del valore della diagnosi precoce, della necessità di ascoltarsi, di interpretare segnali che non vanno mitizzati né negati, e del ruolo spesso decisivo delle reti di cura, familiari e professionali, che sostengono chi cammina in equilibrio su un filo.
Nella sua storia, tuttavia, c’è un dettaglio che resterà come una fotografia scattata senza filtro: l’idea di scegliere le musiche per il proprio funerale, non come resa ma come gesto di controllo minimo dentro la tempesta, un modo per dire “sono io” anche là dove il corpo prova a dire “non so”.
Quel gesto, che a qualcuno potrà sembrare macabro, è stato invece raccontato con pudore e lucidità, e ha restituito dignità all’atto di preparare, di mettere ordine, di riconoscere che l’amore per gli altri passa anche dal non lasciarli soli nelle scelte pratiche quando l’imprevisto diventa padrone di casa.
Nel frattempo, la cronaca medica prosegue con la sua grammatica precisa, e le parole TAC, marcatori, protocolli, follow-up sono entrate nella sua settimana come giorni feriali, senza più il sapore di lingua straniera.
Il punto difficile, ha sottolineato Enrica, è mantenere il respiro largo mentre la vita si restringe, e continuare a dare un nome alle cose quando la tentazione è quella di lasciarle nell’indistinto, dove fanno più paura perché sono più grandi del necessario.
Il racconto pubblico di una malattia è sempre un atto rischioso, espone alla curiosità e alle proiezioni, ma la maturità con cui lo si conduce può trasformarlo in un servizio, in una pedagogia del limite che non umilia ma affratella.
Per questo la sua apparizione non è stata un evento da archiviare nel faldone del pietismo, ma una lezione di postura, di come si sta in piedi davanti a se stessi e agli altri quando non si sa se la prossima curva sarà dolce o stretta.
In controluce, nelle sue parole, si intravedeva una seconda trama, quella fatta di infermieri che cambiano una flebo con discrezione, di medici che misurano le frasi perché sanno che le frasi pesano, di amici che imparano a chiedere “come stai” e ad accettare anche un “oggi non parlo”.
C’è, in questo tipo di storie, una liturgia nuova che l’Italia sta imparando a celebrare meglio: non l’applauso automatico, non la retorica delle “guerriere” che non sempre rispetta le sfumature, ma la vicinanza concreta, a bassa voce, fatta di appuntamenti accompagnati, di spesa lasciata alla porta, di messaggi che non chiedono risposta.
E poi c’è il tempo, il vero protagonista invisibile, che smussa e acuisce, che scava e ricostruisce, e al quale Enrica ha chiesto, con fermezza gentile, di essere un alleato, non un carceriere, almeno per il tratto necessario a far maturare le terapie e i loro frutti possibili.
Il racconto del “non operabile, per ora” ha aperto finestre sul tema delle alternative terapeutiche e dei centri di eccellenza, un lessico che tante famiglie imparano tra una telefonata e un trasferimento, ed è qui che il pubblico ruolo di una persona può diventare sponda per chi cerca informazioni e direzioni.
La verità nascosta del titolo, a conti fatti, non è la malattia in sé, che lei ha deciso di non nascondere, ma la quantità di paura che una persona può portare senza farla pesare addosso agli altri, una paura lavorata come l’argilla, trasformata in parole che non chiedono indulgenza ma responsabilità.
È in questo equilibrio che l’Italia si è sentita guardata, e forse riconosciuta, perché siamo un Paese che sa commuoversi in fretta ma che, quando viene invitato alla sobrietà, sa anche tenere il passo del rigore, se gli si chiede con voce ferma e rispettosa.
Il dopo-intervista, come accade in certi casi, è stato un campo largo di testimonianze, con messaggi di pazienti e caregiver, con storie parallele, con piccoli manuali di sopravvivenza che si passano di mano in mano, a volte in privato, a volte sotto un post che diventa una bacheca di comunità.
Eppure, oltre i riflessi e le eco, resta un’immagine semplice, quasi domestica: una donna di settantacinque anni che dice “sto bene, meglio di come temevo” e contemporaneamente non scansa l’ombra, la nomina, la accoglie, la mette al suo posto, come si mette una coperta piegata in fondo al letto, pronta se farà freddo.
Nel racconto della sua pausa prima della TAC c’è la pedagogia dell’attesa, che i greci chiamavano pazienza e che noi spesso scambiamo per inerzia, mentre è un lavoro sottilissimo di manutenzione del coraggio, giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Non c’è trionfalismo, non c’è catastrofismo, c’è una linea mediana che è la più difficile da tenere, perché non offre appigli narrativi clamorosi, ma è proprio lì che si costruisce la qualità di vita, nella cura degli intervalli, nella scelta delle parole, nei piccoli riti che restituiscono un ritmo.
Se il sorriso di Enrica ha illuminato per anni il cinema e la televisione, oggi illumina diversamente, come fanno certe lampade da comodino che non invadono la stanza ma la rendono abitabile, ed è forse questa la forma più alta di carisma: guidare senza abbagliare.
La musica, quella scelta per il funerale e quella ascoltata nei giorni di terapia, è un filo che unisce l’inizio e la fine, e nel parlarne senza tremito superfluo c’è un insegnamento che non ha bisogno di titoli: possiamo accordare la nostra vita persino quando il pentagramma si complica.
L’Italia, scossa e insieme rassicurata da questa confessione, ha colto l’occasione per fare un passo laterale rispetto alla retorica dell’invincibilità, ricordandosi che la forza non è negare la vulnerabilità ma darle una forma che consenta ai legami di non spezzarsi.
Nel giorno dopo, dietro le vetrine delle farmacie e nelle sale d’attesa, la sua frase è diventata un mormorio condiviso, un “ce la facciamo a starci dentro” che non promette esiti ma promette compagnia, ed è spesso ciò che salva, anche quando non guarisce.
E mentre lei attende la TAC con quella compostezza che nasce dall’aver già attraversato il punto più buio, c’è un paese che le restituisce in silenzio un patto: continueremo ad ascoltare senza invadere, a tifare senza mitizzare, a sperare senza imporre tempi alla speranza.
Quando le luci dello studio si sono spente, la storia non si è chiusa, ha semplicemente cambiato luogo, spostandosi nelle case, negli ospedali, nei telefoni, come fanno le storie che non appartengono più solo a chi le ha raccontate ma a chi ne ha bisogno.
La verità, in fondo, è che l’ombra non ha vinto sul sorriso, e che la scelta delle musiche, lungi dall’essere un saluto definitivo, è la prova che anche il passaggio più temuto può essere pensato con cura, senza perdere la delicatezza.
Così, dietro il sorriso che conoscevamo, abbiamo intravisto una forza più grande: non quella dell’eroismo plateale, ma quella dell’affidabilità, della misura, del coraggio educato, che è il modo più civile di attraversare la paura e di insegnare agli altri a farlo.
E se questo ha lasciato l’Italia sotto shock, è uno shock buono, quello che sveglia e non spaventa, quello che fa togliere l’inutile per lasciare il necessario, quello che ricorda che, finché c’è parola, c’è spazio per stare insieme nella verità, anche quando fa male.
Da qui in avanti, la cronaca sanitaria dirà la sua, i medici diranno la loro, e noi continueremo a tenere il passo con discrezione, ma una cosa l’abbiamo già imparata: la dignità non è un effetto speciale, è un’abitudine quotidiana, e si vede meglio quando qualcuno decide di mostrarla senza enfasi.
Nell’intervallo tra oggi e la prossima TAC, resterà nell’aria un tema musicale semplice, quello dei giorni normali che tornano un po’ alla volta, e in sottofondo una melodia che non promette lieto fine ma promette fedeltà: stare, ascoltare, chiamarsi per nome, aspettare il responso tenendosi per mano