Dopo le parole del ballerino Raimondo Todaro a La Volta Buona, è arrivata sui social la replica della giurata di Ballando con le Stelle

IPACarolyn Smith a Ballando con le Stelle
Roma si è svegliata con l’eco di un botta e risposta che ha scaldato i social ben oltre la temperatura del palinsesto: Carolyn Smith e Raimondo Todaro, due nomi che a Ballando con le Stelle hanno scritto pagine opposte ma comunicanti, si ritrovano al centro di una discussione che travalica il semplice dissenso televisivo e tocca il nervo scoperto della credibilità.
Da una parte la presidente di giuria, icona di competenza tecnica e carisma misurato, dall’altra l’ex campione amatissimo dal pubblico, oggi voce libera che non risparmia stoccate.
Nel mezzo, lo show di Milly Carlucci, che proprio dalle frizioni ha sempre ricavato energia narrativa, ma che stavolta si ritrova con un riflettore puntato su un tema più delicato: il confine tra critica, etica professionale e rispetto umano.
Tutto prende avvio con il passaggio di Todaro a La Volta Buona, il salotto di Caterina Balivo dove le parole sembrano scivolare morbide e invece a volte tagliano come vetro.
Lì Raimondo non usa perifrasi: contesta la coerenza dei voti tecnici di Smith, cita esempi concreti, invoca severità.
Arriva a dire che un giudice tecnico non può assegnare punteggi alti a chi sbaglia il tempo, che la grammatica della danza è una legge non negoziabile e che la coerenza, in diretta, vale come un contratto con il pubblico.
Il suo “bah” in risposta all’opinione di Giovanni Ciacci suona come un gong: non si parla di simpatia o antipatia, ma di standard professionali.
E quando dice “Il tecnico le deve dare due e basta”, la platea capisce che non è una boutade: è una linea del fronte.
La replica di Carolyn Smith, affidata ai social, non si fa attendere ed è di quelle che abbracciano e feriscono nello stesso gesto.
“Capisco la gara a chi la spara più grossa”, scrive, come per sgonfiare l’enfasi, “ma io ho sempre fatto il mio lavoro con professionalità e rispetto”.
Chiude con un marchio di fabbrica, una tagliente leggerezza venata di rabbia: “Stica**i”.
Non è solo un’espressione colorita, è un posizionamento.
Significa: non mi sposto di un millimetro da ciò che so e da come lo faccio.
Significa anche: non accetto processi sommari celebrati fuori pista.
Eppure, dietro quella corazza, c’è un cuore esposto più del solito.
Perché in questi mesi Smith non porta in studio soltanto i tacchi, la penna e il taccuino della giuria: porta anche la fatica.
La radioterapia quotidiana ha ridisegnato i suoi confini di resistenza.
Lei stessa lo ha raccontato, a microfoni spenti e accesi, con la lucidità di chi non cerca sconti ma chiede di misurare la verità con il metro giusto.
“Stavo veramente male”, ha detto, spiegando come la diretta del sabato sera sia un’asticella che costringe a restare in piedi più del corpo e a volte persino più della mente.
Questa non è una scusa, è un fatto.
E i fatti, in tv, spesso spariscono sotto il rumore.
Qui, invece, tornano a galla come boe.
La domanda che fende l’aria è antica: che cos’è, in uno show come Ballando, il giudizio “tecnico”.
È una sentenza notarile che somma errori e premia esecuzione, o un giudizio integrato che valuta crescita, musicalità, interpretazione, connessione con il partner e coraggio nel mettersi a rischio.
Todaro invoca il primo modello, per ragioni comprensibili a chi vive la disciplina in sala tutti i giorni.
Smith rivendica il secondo, quello che la tv e il pubblico chiedono per non scivolare in un campionato federale mascherato da prime time.
La verità, come spesso accade, sta nel modo in cui si bilanciano queste due spinte, e nella credibilità di chi compie quell’equilibrio in diretta.
Dentro questo quadro, il caso esemplare — i voti a Nancy Brilli e a Filippo — diventa una lente distorsiva.
Chi ha contato i passi fuori tempo ha visto l’errore.
Chi ha ascoltato la musica del percorso ha visto un’altra cosa: l’affondo emotivo, la linea delle braccia, il dialogo con il compagno, l’attenuarsi delle rigidità, l’emersione della personalità scenica.
Smith, da coreografa, ha premiato la traiettoria.
Todaro, da maestro, ha sottolineato la grammatica.
Sono due punti di vista legittimi, ma incompatibili se li trasformiamo in assoluti.
E la tv, con i suoi punteggi in tempo reale, obbliga a scegliere, non a spiegare un trattato.
Eppure la spiegazione arriva, ed è quella che non ti aspetti: Carolyn, nelle scorse ore, ha scelto di “rompere il silenzio” non per rilanciare l’attacco, ma per aprire una finestra sul dietro le quinte che rimette in ordine i pezzi.
“Non volevo mettere in imbarazzo nessuno”, confida a chi la incalza, “ma c’è una cosa che non si è vista”.
Racconta di un momento in sala prove, prima della puntata incriminata, in cui una concorrente — la stessa finita sotto accusa per il fuori tempo — aveva chiesto di ricominciare da capo una sequenza perché il corpo “non seguiva la musica”.
Non un capriccio, ma un cortocircuito tra entusiasmo e fatica.
Una micro-verità che sposta la percezione di una macro-giudizio.
In diretta quella storia non si è raccontata, per tutelare la persona, non la performance.
Il punto è tutto qui: fino a dove deve spingersi la trasparenza quando la tv incontra l’umano.
Se la giuria dicesse tutto, sempre, la gara diventerebbe un bollettino medico.
Se non dicesse nulla, mai, la gara scivolerebbe nella farsa.
Smith — piaccia o no — da anni cammina su questo crinale.
C’è chi la accusa di essere “buona” in certi frangenti, chi di essere “rigida” in altri.
In realtà segue una regola di campo chiara: quando l’errore è tecnico ma nasce da una condizione che la produzione e i maestri conoscono, si valuta anche la qualità del lavoro e del recupero.
È un metodo discutibile?
Sì.
È un metodo coerente?
Anche.
Raimondo, dal canto suo, conosce il gioco e ne ha scritto pagine gloriose.
Ha insegnato a molti volti noti come sopravvivere al vals inglese e alla samba del sabato sera, e sa che la disciplina si difende non solo con i sorrisi, ma con i no.
Nel suo ragionamento non c’è cattiveria, c’è un’idea quasi kantiana di regola: se un 9 può coprire un fuori tempo evidente, il patto si incrina.
La differenza tra i due, dunque, non è di qualità morale, ma di paradigma.
E quando due paradigmi si scontrano nello stesso format, l’effetto è un corto circuito perfetto per i trend, meno perfetto per chi ci mette voce e faccia.
L’episodio ha rianimato un coro di voci esterne.
C’è chi ha riallacciato il discorso alle recenti esternazioni di Enzo Paolo Turchi, che aveva definito la giuria “più opinionista che tecnica”.
C’è chi ha visto nello sfogo di Todaro l’ennesimo capitolo della guerra tra “danza” e “televisione”.
E c’è chi, con un minimo di memoria, ricorda come Ballando sia sempre stato un luogo intermedio, un ponte: tra sala e palco, tra rigore e pop, tra competenza e racconto.
È il suo segreto e la sua condanna.
Ogni stagione rinegozia quel patto.
Ogni volta qualcuno pensa che il pendolo sia andato troppo a destra o troppo a sinistra.
La parte che ha colpito di più, nelle parole nuove di Carolyn, è quella che non riguarda i voti, ma la responsabilità.
“Non umilio nessuno”, ha detto.
E c’è un pezzo di verità non negoziabile in questa frase, soprattutto se la leggiamo accanto alla sua condizione di salute.
Star seduta ore, con dolore e stanchezza che bussano come creditori impazienti, e continuare a scegliere parole che non feriscano, è una forma concreta di etica.
Non basta a sedare i dubbi sulla coerenza dei numeri, ma obbliga chi critica a usare gli strumenti giusti.
Una contestazione può essere precisa senza essere personale.
Una difesa può essere ferma senza trasformarsi in invettiva.
Il retroscena che “ha scioccato tutti” — così molti lo hanno definito online — non è un colpo di teatro, ma una rivelazione di tono: dietro le quinte di certe valutazioni c’è più umanità che strategia.
Smith racconta di aver fermato una discussione interna proprio per evitare che il caso degenerasse in diretta.
“Non volevo mettere in imbarazzo nessuno”, ribadisce.
Perché a finire in pasto ai social, quando si sbaglia un tempo o si perde il centro, non è un dato, è una persona.
E quando la persona sta attraversando un percorso difficile, la giustizia non si misura solo a colpi di tabelle, ma anche con la compassione.
Questa non è retorica: è la differenza tra uno spettacolo e un processo.
La lezione, però, vale per tutti.
Per i giudici, chiamati a calibrare tecnica e racconto.
Per i maestri, chiamati a proteggere i loro allievi senza schermarli dalla verità.
Per i concorrenti, chiamati a portare fragilità senza trasformarla in alibi.
Per il pubblico, chiamato a chiedere chiarezza senza fame di linciaggio.
E per i media, chiamati a non scambiare la disputa per la trama intera.
Uno show vive di conflitti, ma muore di risse.
Il confine è sottile e si disegna, spesso, proprio nelle notti come questa.
Nel frattempo, la macchina va avanti.
Sabato si torna in pista, e la curiosità su come la giuria risponderà nella sostanza — più rigore, più spiegazioni in live, un breve richiamo alla griglia di valutazione — è altissima.
Non serve una rivoluzione per raddrizzare la percezione, basta una manciata di scelte chiare.
Per esempio, dichiarare in anticipo i pesi: tecnica pura, interpretazione, musicalità, partnership, progresso settimana su settimana.
E, quando si premia il “percorso” a fronte di un inciampo, dirlo esplicitamente in trenta secondi.
La trasparenza non spegne la televisione, la rende più forte.
C’è anche un fattore emotivo che non si può ignorare: il pubblico ha un rapporto affettivo con Todaro e con Smith.
Vederli in contrapposizione crea un dolore che sfiora il tifo.
È qui che entrano in gioco la maturità e la memoria condivisa.
Raimondo ha costruito anni di vittorie e di insegnamenti che hanno insegnato agli italiani a guardare la danza con occhi meno superficiali.
Carolyn ha insegnato a riconoscere un appoggio pulito da uno sporco, un centro tenuto da uno mollato, una spalla allungata da una collassata, con parole che chiunque può capire.
Non sono nemici naturali, sono due vocazioni che si guardano allo specchio da prospettive diverse.
Se vogliamo cercare la “notizia”, è questa: Carolyn ha scelto di spostare il piano.
Non dal giusto allo sbagliato, ma dal punteggio alla persona.
Ha ricordato che dietro un 9 o un 4 c’è un contesto che, quando è necessario e opportuno, deve essere considerato.
Ha promesso di non trasformare la tv in un confessionale, e di non permettere che la gara diventi un elenco di attenuanti generiche.
Ha aggiunto quella frase che spiega molte altre: “La danza mi ha salvata più volte dalla paura, per questo la rispetto quando giudico”.
È una dichiarazione d’intenti.
Vuol dire che la danza non serve a punire, ma a far crescere.
Punisce solo quando la crescita è rifiutata.
Raimondo, dal canto suo, ha già vinto una battaglia: ha costretto tutti a rimettere a fuoco la parola “tecnica”.
Ha ricordato che tempo, postura, connessione, footwork, asse, conduzione non sono opinioni.
Sono alfabeti.
E che quando l’alfabeto viene ignorato, il racconto si traduce male.
Se questo confronto genererà puntate più chiare e giudizi più spiegati, avrà fatto bene allo show e alla danza.
Se si trasformerà in un tira e molla di slogan, avrà bruciato una buona occasione.
Sullo sfondo, Milly Carlucci farà quello che ha sempre fatto meglio: tessere.
Tessere pace e tensione, racconto e regola, affetto e competenza.
Dare spazio a una parola di chiarimento senza farne un tribunale.
Ricordare che Ballando non è un’accademia e non è un varietà.
È la striscia di terra nel mezzo, dove si impara a parlare due lingue contemporaneamente.
E dove, ogni sabato, la grammatica incontra la poesia e, se va bene, si innamorano.
Intanto, sui social, il pubblico ha già scritto la sua scaletta emotiva.
C’è chi difende Todaro invocando rigore.
C’è chi abbraccia Smith chiedendo umanità.
C’è chi, saggiamente, chiede solo di capire come si pesa un voto.
Sono tutti pezzi legittimi dello stesso mosaico.
La differenza la farà il tono.
Un conto è chiedere, un conto è bruciare.
Un conto è pretendere coerenza, un conto è sminuire una storia personale di lotta e di lavoro.
Quando, tra qualche settimana, questa polemica avrà perso volume, resterà una piccola eredità utile, se non la sprechiamo.
La possibilità di stabilire, una volta per tutte, un prontuario minimo di trasparenza danzante: che cosa si premia, che cosa si punisce, quando e perché una deroga è una scelta e non una debolezza.
E resterà — speriamo — il ricordo che le persone vengono prima degli hashtag.
Che un giudizio tecnico può essere chirurgico senza diventare crudele.
Che un dissenso forte può essere espresso senza una miccia accesa sotto la sedia di nessuno.
“Non volevo mettere in imbarazzo nessuno”, ha detto Carolyn.
La frase, tolta dal contesto, sembra un paravento.
Dentro il contesto, è una bussola.
Dice che la priorità non è vincere una sfida verbale, ma proteggere un perimetro di dignità.
Dice che la tv può fare spettacolo anche quando sceglie il passo indietro.
Dice, soprattutto, che la danza non è mai soltanto passi: è relazione.
E la relazione, a volte, vale un punto in più del punteggio.
Il sipario, per ora, si chiude qui, con due protagonisti che in modi diversi hanno fatto bene alla danza in tv e continuano, magari a distanza, a farle da sentinelle.
Il pubblico li ascolta, anche quando finge di tifare soltanto.
La prossima puntata sarà un termometro fedele: vedremo se il dibattito produrrà più chiarezza o nuove scintille.
Intanto, un piccolo augurio professionale e umano vale per entrambi: che il rigore non perda tenerezza e che la tenerezza non tradisca il rigore.
È in quell’incrocio che Ballando, da anni, trova il suo ritmo.
Ed è lì che, tra un 9 e un 2, si capisce se la tv ha ancora qualcosa di vero da insegnare.